Alla fine dell’anno dedicato alla figura di San Giuseppe, ispirate dalla bellissima Lettera Apostolica del Santo Padre Francesco, Patris Corde, ci è piaciuto guardare il nostro Fondatore, Francesco di Paola, considerando quegli aspetti che il Papa ha riconosciuto quali caratteristici della figura del padre putativo di Gesù.
Tre attitudini sono indispensabili perché si possa parlare di obbedienza filiale: predisposizione all’ascolto, apertura umile e infine abbandono fiducioso. Essa è molto diversa dall’obbedienza servile, che è esecuzione di un comando recepito come un obbligo, una imposizione subita. L’obbedienza di Francesco di Paola, proprio come quella di San Giuseppe, fu quella di figlio amato che ha piena fiducia nella Volontà del Padre. Egli imparò da bambino a comprenderla, riconoscendola negli eventi, leggendola nel proprio cuore, discernendo i movimenti dello Spirito Santo. Da ragazzino, al termine dell’anno votivo trascorso a San Marco Argentano, capì di dover rifiutare l’invito dei frati minori a restare con loro e motivò la sua decisione affermando con convinzione: «Non è la volontà di Dio.». Le stesse parole le ascoltiamo nuovamente sulla sua bocca molti anni dopo, fatto che rimarca il suo cammino di perseverante obbedienza:
Mentre si intratteneva in colloquio con uno dei suoi frati, Francesco fece questa profezia: “un giorno dovremo andare in un luogo dove non ci capiranno, e neanche noi capiremo loro”. Il frate subito obbiettò: “Padre, se non capiranno e neanche noi capiremo loro, perché dobbiamo andarvi?” “Poiché è volontà di Dio!”, rispose prontamente Francesco. (Anonimo).
Ascolto- apertura-abbandono. Crescendo, dunque, si affinarono in lui queste attitudini rendendogli sempre più intelligibile la Volontà del Signore e così quando alcuni gli chiesero di poter condurre vita eremitica con lui, si mise in ascolto di Dio, senza barricarsi nei suoi progetti, né irrigidirsi nell’idea, formatasi in quegli anni di solitudine, sulla forma di vita da condurre e con apertura umile si abbandonò pienamente ai voleri divini, cambiando nuovamente tutta la sua impostazione di vita. Come può non venire in mente San Giuseppe, che rinuncia ai suoi piani per abbracciare il Piano di Dio; lui che, per ben quattro volte, seppe riconoscere nel sogno avuto la manifestazione del volere dell’Altissimo?!
In ogni circostanza della sua vita –ci dice il Papa- Giuseppe seppe pronunciare il suo “fiat”, come Maria nell’Annunciazione e Gesù nel Getsemani (Patris Corde 3).
E così il nostro Fondatore! In principio Padre di un piccolo gruppo di eremiti, in seguito Padre di un grande Ordine, Francesco di Paola, come il falegname di Nazareth, seppe essere Padre nell’obbedienza poiché continuò sempre a vivere la sua vita da figlio obbediente, capace per questo di guidare gli altri sulla via tracciata dallo Spirito.
Lungi dall’essere sinonimo di mollezza, la tenerezza è piuttosto grandezza di cuore. Solo chi ama prova vera tenerezza e solo chi lascia spazio alla tenerezza può diventare compassionevole, può comprendere l’altrui debolezza e farsene carico, può perdonare il torto subito sino a dimenticarlo. Se San Francesco è nell’immaginario comune l’eremita rude, forte, silenzioso, è pur vero che nella sua vita ha dato prova di grande tenerezza. Da Padre Fondatore, si occupò dei suoi religiosi con delicata attenzione. Questo nella Regola risulta evidente nella cura richiesta per gli ammalati, o nell’accondiscendenza verso il bisogno di coloro che soffrono di continuo languore e in altri particolari con i quali si mitigano le austerità se serve per sovvenire alle necessità di un frate in difficoltà e lo si vede con evidenza nel richiamo al reciproco perdono. Un Padre tenero spera di generare figli capaci della medesima tenerezza, attenzione, dolcezza, sensibilità d’animo, apertura di cuore.
Ma noi Minime, in modo particolare, cogliamo la sua tenerezza in alcuni gesti che ce lo fecero stimare quale Padre accorto e sollecito nonostante la distanza. Infatti, quando completò la redazione della nostra Regola, senza attendere l’approvazione apostolica, designò un suo Vicario per la direzione e formazione delle prime Monache Minime (ricordiamo che il secondo Ramo dell’Ordine sorse in Spagna). E non scelse un Vicario qualsiasi ma padre Giovanni Abundance che era stato il primo Provinciale in Spagna, eletto per comando del Fondatore stesso nel 1496. Un uomo la cui Santità era stimata da tutti nell’Ordine. San Francesco in questo modo si assumeva personalmente la responsabilità delle Minime, nella figura del suo Vicario. Attraverso di lui inviò a ciascuna monaca un rosario in regalo, un segno semplice ma d’amore paterno.
San Francesco però, fu un Padre tenero anche per i tanti fedeli che accorrevano al suo convento. Nei processi leggiamo di un uomo che venne a Paola per chiedere al Frate di guarire suo figlio gravemente malato, Francesco però saputo in spirito che il ragazzo era appena morto dovette informare il povero genitore che scoppiò in pianto. Il buon Padre commosso, si prodigò nel rincuorarlo e gli profetizzò la nascita di due figli l’anno successivo, infine lo mandò via consolato. San Francesco era un Padre tenero con i tanti fedeli che accorrevano al suo convento: guariva gli ammalati, rincuorava gli afflitti e aveva grande tenerezza verso i peccatori pentiti invitandoli a confessarsi: a spazzare la propria casa cioè la coscienza, per riconciliarsi con il Signore e incontrare il suo perdono. Proprio l’anonimo contemporaneo suo primo biografo attesta questa dolcezza con cui l’eremita spingeva chi aveva sbagliato a pentirsi e a cambiare vita, muovendo tutti a confidare nel perdono di Dio che ci aspetta a braccia aperte!
Sotto quest’ultima prospettiva vogliamo riportare un altro bellissimo passo della Patris Corde:
Il Maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla luce con tenerezza. È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. Il dito puntato e il giudizio che usiamo nei confronti degli altri molto spesso sono segno dell’incapacità di accogliere dentro di noi la nostra stessa debolezza, la nostra stessa fragilità. Solo la tenerezza ci salverà dall’opera dell’Accusatore (cfr Ap 12,10). Per questo è importante incontrare la Misericordia di Dio, specie nel Sacramento della Riconciliazione, facendo un’esperienza di verità e tenerezza. Paradossalmente anche il Maligno può dirci la verità, ma, se lo fa, è per condannarci. Noi sappiamo però che la Verità che viene da Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, ci perdona. La Verità si presenta a noi sempre come il Padre misericordioso della parabola… (Patris Corde 2).
Come Gesù e Maria hanno visto la tenerezza di Dio in Giuseppe, così a Paola molti videro in Francesco la tenerezza di Dio: le sue braccia furono le braccia di Dio tese verso l’uomo caduto, l’uomo ferito, l’uomo piagato nel corpo e quello piagato nell’anima.
Siamo soliti, nell’Odine, considerare l’accoglienza in San Francesco nella dimensione di ospitalità, ma la Lettera del Papa ci ha portate a considerare l’accoglienza da un punto di vista diverso. Scrive il Papa:
Tante volte, nella vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La prima reazione è spesso di delusione e ribellione. Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia. La vita spirituale che Giuseppe ci mostra non è una via che spiega, ma una via che accoglie.
Egli non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e forte protagonismo. L’accoglienza è un modo attraverso cui si manifesta nella vita il dono della fortezza che ci viene dallo Spirito Santo. Solo il Signore può darci la forza di accogliere la vita così com’è, di fare spazio anche a quella parte contradditoria, inaspettata, deludente dell’esistenza (Patris Corde 4).
Accoglienza della propria storia! Di questo sta parlando il Pontefice riferendosi a San Giuseppe e crediamo di poter dire che è quanto si sia avverato anche nella vita di San Francesco. Compiere con grande fedeltà e docilità la volontà di Dio su di lui: è il riassunto di tutta la sua vita. Senza grandi manifestazioni esteriori, senza nessuna rivelazione particolare, solo nell’accoglienza umile di quanto Dio gli presentava ogni giorno, anno dopo anno, nelle più svariate vicende, nelle situazioni facili o difficili, senza cercare da parte sua delle risposte, e tanto meno voler capire il disegno di Dio su di lui, come un servo buono e obbediente si mise totalmente a servizio dell’opera che Dio pian piano gli affidava, facendo fruttificare al massimo i talenti ricevuti.
Servendosi della ricchezza del suo forte carattere passionale e della sua tenacia, non si arrese mai di fronte a nessun ostacolo, ma fidandosi unicamente della potenza di Dio che “compie meraviglie”, andò avanti con ardore e decisione, controcorrente, lasciando fare a Dio quello che umanamente alle sue sole forze e capacità sarebbe stato impossibile. Tutto ciò con profonda umiltà, quasi non fosse lui il protagonista di questa storia.
Oltrepassato già l’arco dei sessantacinque anni di età, dei quali più di quaranta vissuti da eremita, nella continua preghiera e ardua penitenza, Francesco continuerà a camminare di virtù in virtù, di bene in meglio, configurandosi sempre di più a Cristo Crocifisso. Sotto la sua responsabilità nel momento in cui doveva lasciare tutto e andarsene in Francia, per compiere quella che ha capito essere la volontà di Dio, ha cinque comunità di eremiti, fondate da pochissimi anni; lui stesso ne ha seguito i primi tramiti curandone l’organizzazione, nominando i superiori e i delegati che avrebbero dovuto portare avanti le fondazioni, non tralasciando di formarli con le sue ammonizioni ed esempi a una vita di totale configurazione a Cristo dedita alla preghiera e alla penitenza. Sebbene la precarietà degli inizi lasciasse pensare umanamente alla necessaria presenza del Santo Padre tra i suoi, dinanzi l’ordine del Papa di andare in Francia, Francesco, come un nuovo Giuseppe, compie il suo esodo, senza sapere ciò che avrebbe trovato e ciò che sarebbe accaduto a quanto lasciava ma andando incontro al futuro con senso di responsabilità e accogliendolo in tutta la sua novità.
E allora, leggiamo ancora un passo della Patris Corde, che va a corroborare quanto appena detto:
Lungi da noi allora il pensare che credere significhi trovare facili soluzioni consolatorie. La fede che ci ha insegnato Cristo è invece quella che vediamo in San Giuseppe, che non cerca scorciatoie, ma affronta “ad occhi aperti” quello che gli sta capitando, assumendone in prima persona la responsabilità (Patris Corde 4).
Ma dall’esperienza francese di San Francesco possiamo evidenziare un altro evento che pone in rilievo la sua capacità di comprendere il Piano di Dio e accoglierlo nella sua totalità.
Dal racconto che ci hanno lasciato le fonti, sappiamo con certezza che, dopo la morte improvvisa di Carlo VIII, Francesco credette di aver concluso la sua esperienza alla Corte di Tours e di poter tornare in Calabria, nella sua Terra amata e riprendere in mano la sua opera. Si dispose a tornare in Italia con il permesso del nuovo reggente, Luigi XII, duca d’Orleans, che non conoscendo il frate, né la sua influenza a Corte, non ritenne un problema concedergli il salvacondotto per rientrare in Patria. Francesco era già sulla via del ritorno, quando il Re, informato del ruolo ricoperto dall’Eremita in tutti quegli anni e consigliato di non lasciarlo partire, inviò un’ordinanza con la quale revocò il salvacondotto concesso e richiamò a Corte il buon frate che si sottomise alla volontà del Re vedendo in essa l’intervento di Dio. Non bisogna far troppa fatica per immaginare il travaglio interiore di San Francesco, che nonostante tutto, è capace di riconciliarsi con la sua storia, la storia che Dio ha provveduto a tracciare e che fedelmente lui ha accolto.
Ma lasciamoci illuminare ancora da alcune parole della Lettera Apostolica che stiamo considerando, e dalla figura di San Giuseppe. Leggiamo cosa scrive il Papa:
Se non ci riconciliamo con la nostra storia, non riusciremo nemmeno a fare un passo successivo, perché rimarremo sempre in ostaggio delle nostre aspettative e delle conseguenti delusioni.
La vita spirituale che Giuseppe ci mostra non è una via che spiega, ma una via che accoglie. Solo a partire da questa accoglienza, da questa riconciliazione, si può anche intuire una storia più grande, un significato più profondo (Patris Corde 4).
San Giuseppe seppe scorgere negli eventi che si verificavano e che non di rado rompevano i suoi piani, interrompevano i suoi progetti, alle volte li distruggevano totalmente, il Piano più grande dell’Altissimo e così possiamo ben dire del nostro Fondatore.
Continuando in questo confronto con la personalità di san Giuseppe, prendiamo quest’altra caratteristica accennata dal Papa: Padre nel coraggio creativo. Dice la lettera apostolica:
Il coraggio creativo emerge soprattutto quando si incontrano difficoltà. Davanti a una difficoltà ci si può fermare e abbandonare il campo, oppure ingegnarsi in qualche modo. Sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere. Molte volte, leggendo i “Vangeli dell’infanzia”, ci viene da domandarci perché Dio non sia intervenuto in maniera diretta e chiara. Ma Dio interviene per mezzo di eventi e persone. Giuseppe è l’uomo mediante il quale Dio si prende cura degli inizi della storia della redenzione. Egli è il vero “miracolo” con cui Dio salva il Bambino e sua madre. Il Cielo interviene fidandosi del coraggio creativo di quest’uomo. (Patris Corde, 5)
A Giuseppe Dio affida i suoi beni più cari: Gesù e Maria. Al nostro santo Padre, Dio, quale bene gli affida? La sua famiglia religiosa, della quale lui è il Padre e il Fondatore.
Francesco seppe leggere e scorgere la mano di Dio nella sua storia personale e nelle vicende del suo Ordine, accogliendo le piccole e le grandi manifestazioni del divino volere, che si presentavano man mano nella sua esistenza, non ponendo mai nessun ostacolo al compimento della volontà di Dio, ma aderendovi con magnanimo spirito di fede e in totale adesione e obbedienza. Egli non si rifiutò mai di compiere il volere di Dio, anche quando portarlo a compimento significò per lui lo sconvolgimento di tutta la sua vita. Accenniamo soltanto alcuni:
Il mutamento notevole avvenuto in seguito al suo arrivo in Francia con il passaggio dalla vita eremitica a quella cenobitica o conventuale richiesto dalle nuove esigenze di vita incontrate dal Fondatore nel nuovo ambiente in cui dovette impiantare il suo movimento. Francesco, ha dovuto saper accogliere le cose valide e buone che questa nuova realtà aveva portato, rifiutare le cose superflue che non rispecchiavano il suo stile di vita, adattare le cose imprescindibili e fondamentali senza venir meno al carisma che aveva ricevuto e che gelosamente custodiva nell’intento di plasmarlo fedelmente.
Dopo tanti anni di attesa -erano passati ormai 72 anni da quando Francesco accolse i suoi primi compagni a Paola, anni ardui di intenso lavoro nella stesura della sua Regola-egli nel 1502 ottiene l’approvazione di una sua Regola propria nella quale poter delineare il suo carisma e il suo stile di vita; una Regola che, nell’approvarla, il Papa definì come “luce per illuminare i penitenti”.
Avere tra le mani questo tesoro, dopo tante sofferenze sia all’interno sia all’esterno dell’Ordine: era ricevere il coronamento delle sue fatiche, non solo, era la risposta di Dio che gli assicurava di essere sulla strada giusta. Ormai, si chiudeva l’itinerario di organizzazione e sistemazione. “Nel nome del crocifisso” iniziava Francesco la sua Regola.
Ma negli ultimi anni della sua vita sorse ancora un fatto totalmente inaspettato. Ad Andújar, dopo aver ricevuto la nuova stesura della Regola, le Sorelle non si manifestarono dal loro punto di vista del tutto soddisfate. Non vedendo ancora appagato in questo documento tutto l’anelito che portano nel cuore, giacché intendevano vivere il carisma in maggiore solitudine, con una separazione dal mondo più radicale. Scrissero pertanto a Francesco, loro fondatore, nel mese di marzo del 1503 per chiedergli di poter vivere come religiose di clausura. Erano trascorsi solo sei mesi dall’approvazione della Regola quando Francesco ricevette questa richiesta delle Sorelle, evento che lo mise nuovamente nell’urgenza di dare una risposta.
Se certe volte Dio sembra non aiutarci, ciò non significa che ci abbia abbandonati, ma che si fida di noi, di quello che possiamo progettare, inventare, trovare (Patris Corde, 5).
La sua risposta non si fece attendere: destando la meraviglia di tutti, non solo rispose alle Sorelle in modo positivo, ritenendo legittimo il loro desiderio di vivere con maggiore radicalità il carisma abbracciato, ma dovendo accingersi a redigere una Regola per loro, riprese tra le mani anche quella già scritta per i fratelli assieme a quella scritta per i terziari e, ricompose i testi compiendo un lavoro di unità e essenzialità per la sua famiglia religiosa. Nacquero così quattro nuovi codici: la Regola dei fratelli (quarta e definitiva redazione), la Regola delle Sorelle (prima e unica redazione), il “Correttorio”, ove stabilisce norme pratiche e disciplinari di organizzazione e di condotta, atti a formare e a correggere; e la Regola per i Fedeli secolari, anche questa semplificata nel suo insieme. Così dalla difficoltà, la sua coraggiosa intraprendenza seppe trarre una nuova possibilità da cogliere.
…Il Vangelo ci dice che ciò che conta, Dio riesce sempre a salvarlo, a condizione che usiamo lo stesso coraggio creativo del carpentiere di Nazaret, il quale sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza.” “….Dio interviene per mezzo di eventi e persone” (Patris Corde, 5).
Nella Lettera apostolica si legge di un elemento che forse è tra i più caratteristici di San Giuseppe e allo stesso modo di San Francesco: il lavoro. Entrambi furono lavoratori ai quali la fatica non fece mai timore.
Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, _ spiega Papa Francesco_ occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per gli altri… La persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventa un po’ creatore del mondo che ci circonda.
E così ci piace pensare a San Francesco il quale, ovunque andasse, riusciva a ricostruire il suo habitat che rivelava il forte attaccamento al mondo della terra e del lavoro. Sceglieva luoghi ai margini del centro abitato, si industriava nel coltivare il suo orticello. Era cresciuto così: uomo pratico, lavoratore, uomo di preghiera e di grande penitenza. Perciò, la Minima deve amare il lavoro sapendo che la profondità della sua vita interiore e il progresso nella virtù, soprattutto nella pazienza e nell’umiltà, si misurano dall’impegno e dalla sua laboriosità. Inoltre, ognuna può dare così il suo apporto alla Comunità della quale fa parte, facendo sì che i doni ricevuti, invece di favorire l’individualismo, producano frutti di comunione.
Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia (Patris Corde, 6).
Ricordando le parole di San Paolo VI, Papa Francesco riafferma che la paternità di San Giuseppe si espresse:
nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro…. Per questo suo ruolo nella storia della salvezza -continua il Santo Padre- San Giuseppe è un padre che è stato sempre amato dal popolo cristiano… (Patris Corde, 1).
Queste parole ci hanno fatto pensare alla paternità di San Francesco e al dono che ha fatto di sé a Dio e alla sua Chiesa, in particolare al nostro Ordine per il quale ha lavorato, sofferto, sospirato sino all’ultimo momento della sua vita, quando con in mano un braciere ardente rammentava ai suoi frati che nulla è impossibile a chi ama Dio spronandoli alla fedeltà al carisma quaresimale.
Per questo suo ruolo di Fondatore, per questo suo dono totale di sé, San Francesco fu ed è un Padre amato. Noi Minime, sin dai primi albori della nostra vocazione abbiamo fatto riferimento a lui come al Padre buono e premuroso. Si è tramandato nella tradizione dei nostri monasteri il detto: “andiamo dal santo Padre, egli provvederà” e davvero egli sempre provvede
Ma c’è un episodio che viene tramandato da una generazione di Minime all’altra e che esprime in modo suggestivo l’amore reciproco tra il Padre Fondatore e le sue figlie. È un episodio la cui storicità non possiamo assicurare, poiché la cronaca di Andùjar andò distrutta durante la guerra civile spagnola della prima metà del XX secolo, ma che le monache hanno continuato a trasmettere con dovizia di particolari, dato, questo, che ci fa supporre che qualcosa di vero possa esserci stato. Si racconta che, il 31 marzo 1507, san Francesco apparve ad un’oblata Minima. Erano quelli i suoi ultimi giorni di vita, come ben sappiamo, ed il Santo Eremita si trovava in Francia, ma secondo la tradizione, conscio che la sua morte si stava avvicinando, volle congedarsi dalle sue figlie. Questo è quanto accadde conformemente a quanto si tramanda da secoli: la Minima mentre si trovava occupata nelle pulizie vide un uomo ritto ai piedi della scalinata principale del monastero; era anziano, barba lunga e grigia, indossava l’abito dei Minimi, il cappuccio gli copriva il capo, un bastone tra le mani. Questi si presentò scoprendosi il volto ed invitò la monaca, che gli si era prostrata dinanzi, ad avvisare le consorelle che venissero, perché voleva salutarle prima della sua dipartita per il Cielo. Quella, stupefatta, rispose che nessuno le avrebbe potuto credere, che avrebbero pensato che avesse perduto il senno, ma il Santo Padre le rispose semplicemente: «Per carità, stendi la mano!». La monaca era priva della mano destra! Senza fare domande, prontamente obbedì e allungò il braccio destro la cui mano era monca, san Francesco lo strinse tra le sue mani, poi lo benedisse facendo su di esso il segno della croce ed istantaneamente iniziò a crescerle la mano mancante. A quel punto il Santo Padre le disse: «Vai a chiamarle, perché ora sì che ti crederanno!». Effettivamente le monache vedendo quel fatto sì eclatante credettero al racconto della emozionatissima consorella che andava ad annunciarle che nel chiostro c’era san Francesco ad attenderle e corsero immediatamente incontro all’amato Padre. Sempre secondo il racconto, san Francesco annunciò la sua prossima morte e raccomandò a tutte loro la fedeltà alla Regola ricevuta. Lasciò in dono una semplice tazzina di legno, nello stile propriamente povero e austero che per tutta la vita lo aveva contraddistinto, infine, le benedisse e scomparve. Ma il racconto non finisce qui! Giunse il Venerdì santo. Conosciamo molti libri in cui si narra la morte del nostro santo padre, ma solo il Padre Morales ha raccontato cosa avvenne ad Andújar nel monastero Gesù Maria delle Monache Minime. Le monache si trovavano in Coro raccolte in preghiera, erano le 15,00 del pomeriggio, il raccoglimento venne interrotto improvvisamente da un suono festoso di campane: erano le campane del monastero. Si guardarono attonite, erano tutte lì, chi poteva suonare in quel momento? Andarono a vedere, e comprovavano che suonavano da sole, senza che nessuno le stesse toccando. Le monache non seppero interpretare subito il fatto, poi quando seppero dai frati l’ora in cui san Francesco era passato da questa vita a quella eterna compresero che con quelle campane lui stesso annunziava loro che il momento del suo transito alla benedizione del Cielo era giunto.