A grado a grado che la sua intelligenza si andava sviluppando, egli sentiva crescere sempre più il bisogno di attendere alla preghiera, raccogliendosi, più che lo comportasse la sua età, nel pensiero della divina presenza. E le sue preghiere non erano un vano suono di parole, che ripeteva per imitazione, come suole accadere nei fanciulli: erano un atto che, aiutato dalla grazia sviluppatasi per dono particolare innanzi tempo, egli compiva con tutta l’attenzione della mente e l’affetto del suo cuore. Per lui quasi tutte le ore della giornata, dall’alba al tramonto e più tardi molte anche della notte, non conobbero intervalli infruttuosi dell’ozio.
Assorto nella preghiera, egli dava l’immagine di uno di quegli spiriti eletti, che il Signore educa per se stesso, perché si elevino sino a lui, e vivano nella sua adorazione, nelle delizie ineffabili delle visioni e dei palpiti suoi. Trovava la gioia più intensa nel recarsi mattina e sera in chiesa, dove assisteva in ginocchio alle sacre funzioni, che avevano per lui un’attrattiva irresistibile, e ascoltava con avidità la parola di Dio, che comprendeva e riteneva a memoria. Ma la sua devozione più viva e più tenera era per Gesù Crocifisso e per la Madre celeste, che onorava con ossequi speciali, e che divennero fin d’allora gli amori più ardenti dell’anima sua per tutta la vita….
Il giovanetto così puro e mortificato, si adornava inoltre di quelle virtù che più rifulsero nella vita domestica del fanciullo divino: ubbidienza, umiltà, dolcezza. […] Certo egli era una di quelle creature privilegiate, di cui si sarebbe potuto ripetere ciò che di S. Bonaventura ancor giovinetto soleva dire il suo celebre maestro Alessandro d’Ales: «Sembra che Adamo non abbia peccato in lui!». Belle parole, nelle quali scorgo delineato il ritratto morale di questo fanciullo innocente, che sempre adorno della grazia santificante, come affermano concordemente le nostre fonti, ebbe semplicità di animo, bontà di cuore, docilità e fermezza di volontà, alacrità di spirito nella santa gioia, che nasce nell’anima dal sentirsi con Dio.
Si univano a queste doti interne, la modestia singolare del suo contegno, l’ingenuità dei suoi modi, la serenità, la grazia del suo volto, che conciliavano l’affetto e le simpatie di quanti l’avvicinavano, i quali sentivano come effondersi da lui la luce e il profumo di una purezza e di una bontà non comuni. Questo complesso non ordinario di qualità interiori ed esteriori non poteva non giustificare pienamente il presagio, che tutti facevano della sua santità con le parole evangeliche: chi mai vorrà essere questo fanciullo.
ROBERTI G., San Francesco di Paola. Storia della sua vita. pp. 72-74.