NOTE BIOGRAFICHE
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Mohāndās Karamchand Gāndhī comunemente noto con l’appellativo onorifico di Mahatma letteralmente “grande anima”, nacque, il 2 ottobre 1869, a Porbandar, città situata a metà strada tra Bombay e Karachi. Il padre, Karamchand Uttamchand Gandhi, era il primo ministro dello Stato di Porbandar: da ben cinque generazioni i Gandhi servivano i rajah di quel regno; sua madre, Putlibai, era una pia indù dedita alla cura della famiglia. Mohandas era l’ultimo di quattro figli, il più timido. Nel 1882, i genitori gli presentarono Kasturbai, sua promessa sposa dall’età di 5 anni. I due si dovettero sposare, pur essendo entrambi tredicenni.
Quando nel 1885 morì Karamchand, lasciò la famiglia sull’astrico, perciò il giovane Mohandas partì per Londra al fine di frequentare la facoltà di Legge e tornare a casa per esercitare la professione di avvocato. Pur sforzandosi di adattarsi allo stile londinese non vi riuscì. E quando dopo due anni e otto mesi concluse i suoi corsi, si iscrisse all’Alta Corte e senza attendere si imbarcò per Bombay. A casa lo aspettavano sua moglie e il suo figlio primogenito Harital che già aveva quattro anni (avrà altri tre figli).. Aprì uno studio legale, ma aveva serie difficoltà a parlare in pubblico. La timidezza lo pregiudicò a tal punto da non avere clienti, fino a che una ditta musulmana di Portbandar gli propose di andare un anno in Sudafrica a sbrigare delle pratiche legali, offerta che accettò. Questo evento fu ciò che cambiò radicalmente la storia di Mohāndās e con la sua quella dell’India e non solo.
Sin dal suo arrivo a Durban, nel 1893, fece amara esperienza dell’apartheid e della conseguente intolleranza, del razzismo, dei pregiudizi che gli indiani pativano in Sudafrica. Il timido Gandhi sentì il dovere di prendere parte attiva nella lotta contro i soprusi a cui erano sottoposti gli indiani nel Natal e indisse a Pretoria una riunione a cui presero parte tutti i connazionali del Sudafrica. In quell’occasione pronunciò il suo primo discorso pubblico. Alla fine del suo contratto, Gandhi, venuto a sapere che l’assemblea del Natal stava preparando una legge pregiudizievole per gli indiani, decise di non rimpatriare per aiutare i suoi connazionali. Nel 1893, Gandhi fondò il Natal Indian Congress, di cui divenne il segretario e che trasformerà la comunità indiana in un’omogenea forza politica.
Nel 1899, allo scoppio della seconda guerra boera, Gandhi organizzò un corpo di portantini e infermieri occupandosi dei soldati inglesi feriti. Al termine della guerra vinta dagli inglesi, contribuì a fondare, nel 1903, il giornale Indian Opinion. L’anno successivo si trasferì a Phoenix in una fattoria agricola con la famiglia e i collaboratori del giornale. Nella fattoria tutti partecipavano ai lavori agricoli ed erano retribuiti con lo stesso salario. Phoenix fu il primo modello di ashram in cui si praticava, in un regime di vita monastico, la povertà volontaria, il lavoro manuale e la preghiera. Ivi Gandhi cominciò la pratica del digiuno, a vestire come il più povero degli indù, a compiere i lavori più umili e vivendo come un’asceta alla ricerca dell’autocontrollo della propria interiorità.
A Johannesburg, l’11 settembre 1906, durante una protesta contro il governo del Transvaal, Gandhi adotta per la prima volta la metodologia della satyagraha fondata sulla satya (verità) e sull’ahimsa (nonviolenza o amore) e che consiste nella resistenza all’oppressione tramite la disobbedienza civile di massa.. Entrato nel partito del Congresso Nazionale Indiano, Gandhi si prefissò come obiettivo la Swaraj, ovvero un’indipendenza completa: individuale, spirituale e politica (che si realizza nell’autogoverno). In poco tempo Gandhi diventò il leader del movimento anticoloniale indiano e nel 1921 il presidente del Partito del Congresso Indiano. Sotto la sua direzione viene approvata una nuova costituzione. Gandhi allarga il suo principio di nonviolenza al movimento Swadeshi che puntava all’autonomia e all’autosufficienza economica del paese, attraverso l’utilizzo dei beni locali. Così cominciò quel lungo cammino che portò l’India all’indipendenza dopo una lotta durata dal 1914 al 1946 e che a Gandhi, la sua famiglia e i suoi collaboratori costò molte volte la prigione e tante sofferenze.
Il 13 aprile 1942 infatti, Gandhi intensificò le sue richieste d’indipendenza scrivendo una risoluzione che richiede ai britannici di lasciare l’India: Quit India. Con questa il Mahatma invita alla ribellione non-violenta totale. Vengono anche organizzate grandi manifestazioni di protesta e gli inglesi reagiscono con arresti di massa, violenze e repressioni senza precedenti. Gandhi e tutti i dirigenti del Congresso vengono arrestati a Bombay il 9 agosto 1942. Gandhi viene detenuto per due anni, sua moglie Kasturbai invece, dopo 18 mesi di prigionia, muore per una crisi cardiaca causata da una polmonite.
Alla fine del 1943 il movimento Quit India riesce a ottenere dei risultati: conclusa la guerra, il nuovo Primo Ministro britannico annuncia che il potere verrà trasferito in mano agli indiani. Ma ci vorrà il 1947 perché il Regno Unito conceda la piena indipendenza alla sua colonia. Un anno dopo, il 30 gennaio 1948 a Nuova Delhi, il Mahatma verrà assassinato con tre colpi di pistola da Nathuram Godse, un fanatico indù radicale che non tollerava la sua politica pacifista.
La fine tragica di Gandhi non ha ucciso il suo messaggio: la metodologia della satyagraha ispirò inseguito altri grandi uomini come Martin Luter King e Nelson Mandela.
A noi piace ricordare il Mahatma Gandhi in visita alla Cappella Sistina dove la sua attenzione venne colpita, dal Crocifisso dell’altare della cappella che rappresenta un Gesù magrissimo, dimesso e sofferente. Il Mahatma dopo aver indugiato per parecchi minuti dinanzi a quell’immagine, esclamò: «Non si può fare a meno di commuoversi fino alle lacrime»